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Nascose di avere l’Hiv alla compagna che morì di Aids, condannato a 22 anni a Messina

La malattia della donna non fu scoperta tempestivamente tanto che sulla mancata diagnosi è stata aperta una seconda inchiesta a carico dei medici che la seguirono

La Corte d’Assise di Messina ha condannato a 22 anni di reclusione L.D.D. un cinquantasettenne messinese accusato di omicidio aggravato. L’uomo avrebbe nascosto di essere sieropositivo a una donna che era stata la sua compagna, un’avvocatessa morta di Aids nel luglio del 2017, a 45 anni, dopo lunghe sofferenze. La donna che era all’oscuro di tutto, scoprì la verità quando ormai era troppo tardi. La sentenza è della Corte d’Assise presieduta dal giudice Massimiliano Micali.

La vicenda ha avuto anche un ulteriore risvolto doloroso, quando la professionista scoprì di aver contratto l’Hiv  a distanza di molto tempo dalla comparsa dei primi sintomi ed era ormai era troppo tardi. La malattia purtroppo non  fu scoperta tempestivamente tanto che sulla mancata diagnosi è stata aperta una seconda inchiesta a carico dei medici che la seguirono. Il caso è emerso per la tenacia della sorella della donna che insieme ai genitori porta avanti da anni la battaglia legale. La procura di Messina nel 2019 aveva chiesto ed ottenuto l’arresto dell’uomo. Si scoprì che anche altre donne non avrebbero saputo della sua situazione.

Nell’udienza dello scorso 22 dicembre il pubblico ministero Roberto Conte aveva chiesto la condanna a 25 anni di reclusione. Erano poi intervenuti gli avvocati di parte civile e della difesa, quest’ultima rappresentata dall’avvocato Carlo Autru Ryolo. “Quali difensori delle persone offese – ancorchè ovviamente soddisfatti dell’odierno esito processuale – non intendiamo rilasciare dichiarazioni trionfalistiche che sarebbero certamente fuori luogo”.

Affermano gli avvocati Bonaventura Candido e Elena Montalbano. “In questa dolorosa vicenda – aggiungono – nessuno può ritenersi vincitore. Il riconoscimento delle nostre ragioni non restituisce alla vita la collega contagiata e, soprattutto, non restituisce la madre al nostro giovane assistito. Potremo sostenere che la “giustizia” ha trionfato solo quando avremo una sentenza definitiva.  Al momento ci limitiamo a constatare che la Corte d’Assise ha riscontrato la fondatezza delle nostre argomentazioni e la conducenza delle prove raccolte dalla Procura ed integrate dalla difesa”.


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