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Muore di malaria non diagnosticata, la famiglia scrive al Capo dello Stato, alla procura generale di Palermo e al ministro della Salute

Aspettano da tre anni risposte sulla morte di Loredana Guida, l'insegnante 44enne di Agrigento deceduta per una forma gravissima di malaria contratta in Nigeria, paese in cui avrebbe voluto aprire una scuola per bambini

Foto: Ansa.it

Aspettano da tre anni risposte sulla morte di Loredana Guida, l’insegnante 44enne di Agrigento deceduta per una forma gravissima di malaria contratta in Nigeria, paese in cui avrebbe voluto aprire una scuola per bambini. La malattia le venne diagnosticata soltanto dopo giorni dal suo rientro in Italia nonostante, febbricitante e sofferente, avesse detto, prima al suo medico di famiglia, poi al pronto soccorso e alla guardia medica di essere tornata dall’Africa.

Un indizio che nessuno avrebbe colto e che ha portato alla morte della giovane donna. Ora i familiari hanno scritto una lettera al Capo dello Stato, alla Procura generale di Palermo e al ministro della Salute per raccontare il calvario vissuto dall’insegnante e chiedere giustizia. Solo per tre medici, infatti, la Procura di Agrigento ha chiesto il processo, per due sanitari – il primario della Rianimazione e una dottoressa del pronto soccorso- i pm hanno per due volte e nonostante le perplessità del gip sollecitato l’archiviazione, sostenendo che le condizioni della donna fossero già così gravi che nulla i due avrebbe potuto fare. Una valutazione non condivisa dalla famiglia che chiede aiuto alle istituzioni.

Al comparire dei primi sintomi Loredana si rivolse al suo medico di famiglia al quale disse subito d’essere stata in Africa. Liquidata con la diagnosi di una banale influenza senza essere mai visitata, fece la spola tra pronto soccorso e guardia medica per giorni. Il 20 gennaio del 2020 arrivò in coma in ospedale. Solo 24 ore dopo venne ricoverata e sottoposta al test sulla malaria. E con incredibile ritardo le fu somministrato il chinino che l’Asp di Agrigento dovette andare a prendere a Catania.

La famiglia- la madre e i tre fratelli – chiedono “un giusto processo dove le parti, interpellate ognuno per le proprie responsabilità nel contraddittorio che si addice ad un paese civile, – scrivono – possano e debbano esprimere le proprie motivazioni dichiarandosi innocenti fino a prova contraria“. Ma, se colpevoli, “siano condannate senza possibilità di scorciatoie“.

(Ansa.it)


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