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Maxi giro di droga e armi nell’Agrigentino, chiusa l’inchiesta su boss e nipote

La procura della Repubblica di Agrigento tira le somme dell'inchiesta, che scaturisce da quella che, il 5 febbraio del 2019, ha già portato all'arresto dei due principali indagati, e si appresta a mandarli a processo

Un maxi giro di hashish, marijuana, cocaina nonchè di armi gestito dal boss Antonio Massimino, dal nipote Gerlando e da tre uomini di fiducia: la procura della Repubblica di Agrigento tira le somme dell’inchiesta, che scaturisce da quella che, il 5 febbraio del 2019, ha già portato all’arresto dei due principali indagati, e si appresta a mandarli a processo. Il pubblico ministero Gloria Andreoli ha fatto notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, atto che precede il rinvio a giudizio, nei confronti dello stesso capomafia 55enne, attualmente detenuto al 41 bis e condannato a 20 anni di carcere nell’ambito dell’inchiesta “Kerkent”; del nipote 30enne nonchè di Gabriele Miccichè, 33 anni, anch’egli arrestato e rinviato a giudizio nell’indagine sul clan Massimino; Marco Caruana, 44 anni e Giovanni Tedesco, 33 anni.

L’indagine, svolta sul campo dai carabinieri, scaturisce da quella che ha portato all’arresto dei due Massimino dopo essere stati immortalati a sotterrare un arsenale nei pressi della villa del capomafia che, allora, era tornato libero dopo avere scontato la seconda condanna per mafia ma che, un mese più tardi, è stato coinvolto nella nuova inchiesta che lo ha fatto finire al “carcere duro”. Per quella vicenda Antonio Massimino è stato condannato a 7 anni e 4 mesi; il nipote, condannato a 4 anni, 5 mesi e 10 giorni di reclusione, in appello è stato ritenuto estraneo e assolto e il verdetto – per entrambi – è diventato definitivo. Le riprese, fatte in incognito dai carabinieri, e le intercettazioni erano state disposte prima dei due arresti e hanno adesso consentito di individuare un giro di droga nel quale avrebbero avuto un ruolo tutti gli indagati.

I fatti risalgono al periodo compreso fra il dicembre del 2018 e il febbraio successivo. Al solo Miccichè viene contestato di avere ceduto a due persone 40 panetti di hashish, del peso di 4,2 chilogrammi oltre a 200 grammi di marijuana. Tutti gli indagati, invece, avrebbero gestito un magazzino trasformandolo in una vera e propria centrale di smercio della cocaina dove la droga veniva tagliata e confezionata prima di essere spacciata “dietro corrispettivi di denaro – è l’atto di accusa del pm – di elevato importo”. Ai due Massimino e a Miccichè viene contestato di avere organizzato il trasporto di 125 grammi di cocaina commissionandolo al pizzaiolo Marco Caruana che, nello stesso giorno dell’arresto di Massimino, fu arrestato dopo che i carabinieri finsero un controllo casuale per cui, in seguito, ha patteggiato 2 anni e 8 mesi di reclusione. Secondo il pm, Antonio Massimino avrebbe ordinato a Caruana e Miccichè di spostare la droga dal magazzino alla sua villa e Gerlando Massimino avrebbe fatto da apripista durante il trasporto.

Il solo Miccichè è accusato della detenzione e della ricettazione del piccolo arsenale – tre pistole clandestine e tre penne pistola – per cui sono stati arrestati e finiti a processo i Massimino: la procura, in sostanza, ritiene di avere individuato l’uomo a bordo della autovettura che, quel pomeriggio, ha portato la sacca con le armi. Antonio Massimino e Miccichè, infine, sono accusati di estorsione per avere costretto un debitore del boss a dargli 400 euro dietro esplicite minacce di morte. La presunta vittima avrebbe dovuto restituire 15.000 euro al capomafia. “Vedi che ti vengo a bruciare vivo – gli avrebbe detto al telefono -, se hai le palle scendi… ti sei fregato 940mila euro… ti metto il resto dei soldi in bocca e te li brucio”: il messaggio sarebbe stato ribadito dal “gregario” Miccichè che lo avrebbe chiamato più volte per ricordargli la circostanza. In uno di questi episodi gli avrebbe, inoltre, sollecitato di far chiedere alla moglie l’anticipo del Tfr in modo da trovare i soldi. Con l’avviso di conclusione delle indagini, i difensori – fra gli altri gli avvocati Salvatore Pennica e Annamaria Castelli – avranno venti giorni di tempo per chiedere un interrogatorio, produrre memorie o sollecitare altri atti di indagine.


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