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Mafia: 4 anni di calvario, nulla l’interdittiva a un’impresa di Vittoria

Il Giudice Amministrativo di appello ha stigmatizzato diversi elementi, il primo fra i quali la attualità della condotta su cui si fondava l’interdittiva

Quattro anni di battaglia legale per un’azienda di Vittoria raggiunta da interdittiva antimafia e ora il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana dà ragione all’imprenditrice, assistita dagli avvocati Giovanni Francesco Fidone e Salvatore Brighina.

L’interdittiva, emessa dalla Prefettura di Ragusa, ruota attorno al ruolo criminale del padre e del marito della donna. Il primo, con cui l’imprenditrice non ha rapporti da anni, ha deciso di collaborare con la giustizia. Il secondo, invece, è sotto processo per episodi di criminalità organizzata risalente nel tempo, cioè fino al 2007: questa è l’accusa della procura distrettuale antimafia di Catania.

Il Giudice Amministrativo di appello ha stigmatizzato diversi elementi, il primo fra i quali la attualità della condotta su cui si fondava l’interdittiva: “Tenuto conto che l’informazione interdittiva è stata emessa il 20 novembre 2019 deve dedursi che gli elementi indizianti rilevanti risalgono a circa 12 anni prima (2007-2019)”. Il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana – presidente Ermanno de Francisco, consiglieri Solveig Cogliani, Antino Prosperi, Maria Immordino e Antonino Caleca – evidenzia anche che tutta la famiglia dell’imprenditrice è entrata a far parte del programma di protezione dei collaboratori di giustizia.

I giudici aggiungono che “il non avere manifestato pubblica dissociazione rispetto alla decisione dei propri parenti o conviventi di collaborare con le forze dell’ordine da parte dell’appellante, è una sopravvenienza in fatto che merita adeguata e approfondita ponderazione. La discrezionalità tecnica riconosciuta al Prefetto non rende la tutela giurisdizionale del privato meno efficace, giacché il sindacato su tale discrezionalità non dev’essere né forte, né debole, ma effettivo”.

I giudici concludono che “il provvedimento interdittivo in disamina risulta carente sul piano istruttorio e, conseguentemente la motivazione che lo sorregge è insufficiente”. Da qui l’accoglimento del ricorso di secondo grado ed un calvario giudiziario concluso per l’imprenditrice anche se, di fatto, la società dopo essere stata raggiunta da provvedimento interdittivo non si è mai fermata a differenza di tante altre imprese.


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