Solo un prete. Con la forza e le bellezza che derivano dal vivere con passione e autenticità una vocazione che si interseca con le traiettorie degli uomini, ovunque si trovino. Persino quella del suo carnefice al quale ha donato il sorriso che lo ha convertito. Una storia, quella di padre Pino Puglisi, gioiosa, anche drammatica, ma piena di relazioni belle. E che inizia molto prima dei tre anni a Brancaccio dove è stato ucciso dalla mafia il 15 settembre di 30 anni fa, nel giorno del suo 56esimo compleanno. Il 25 maggio del 2013 è stato beatificato. Una storia alla quale cinque anni fa ha reso omaggio Papa Francesco e i 100 mila giunti a Palermo da tutti l’Isola, con una Messa nel grande prato del Foro Italico affacciato sul mare, un pranzo frugale nella missione di Biagio Conte e poi a Brancaccio.
Chi l’ha conosciuto da vicino, come Enza Maria Mortellaro, una dei tanti giovani che lo seguivano e oggi insegnante, e il padre gesuita Carlo Aquino, suo stretto collaboratore, spiega che per “3P” servire significava “camminare a fianco di Gesù e camminare con ogni persona a partire dal suo vissuto”. Una passione bruciante vissuta da “un uomo normale, come tanti. Uno al quale piaceva stare in compagnia a scherzare; uno che passava dall’altare alla griglia per arrostire, dopo aver prima raccolto la legna”. E che amava la natura.
Quando viveva con i ragazzi i campi di “fraternità e preghiera”, la notte si partiva in fila indiana e lui con il sacco sulle spalle e il bastone, ricorda Enza Maria, “ci guidava per i sentieri bui che già aveva perlustrato e ci faceva ammirare la luna e le stelle, le ranocchie e i fiori, le farfalle e gli insetti strani”. Con lui “tutto era un’avventura”. Per 3P “vivere era bello, sorridere era benefico. Attraverso l’umorismo sapeva riconoscere i suoi limiti, non si stupiva delle sue fragilità, non si scoraggiava mai e accettava la vita così come veniva, trattandola sempre come un dono”. E ogni incontro era un dono.
Amava la sua attività di educatore. Mai, ad esempio, nonostante i suoi mille impegni, avrebbe rinunciato all’insegnamento nella scuola pubblica perché qui “trovi tutti i giovani così come sono”. Educazione era “aiutare a tirare fuori da ciascuno la sua personale ricchezza”.
Per lui “era prioritaria la persona; più che i contenuti, intendeva passarci la consapevolezza del nostro potenziale, la passione per la vita, la responsabilità nei confronti della società e della Chiesa, il nostro compito nel mondo, vissuto in uno stile di servizio”.
Già, perché tocca “a ognuno di noi realizzare, nel proprio ambito, questo pezzetto di fratellanza, pace e giustizia”. Questo per Puglisi significa ‘vocazione’: “Chiamati a rispondere a Dio che ci invita a collaborare con lui”, quale che sia la strada di ognuno. Aiutare a “tirare fuori” e ascoltare veramente: “Forse in questo – ribadiscono padre Carlo ed Enza Maria, autori di “Padre Puglisi, il Samurai di Dio” – consisteva il segreto di 3P: ascoltare attentamente colui che chiede di parlare e comprenderlo”. Samurai, da saburau, ‘colui che serve’.
E quando a causa della stanchezza, soprattutto dopo che era stato nominato parroco di Brancaccio, era tentato di saltare qualche appuntamento, a chi lo invitava ad assecondare il suo bisogno di rallentare, in modo risoluto, tornando sui suoi passi, diceva: “Sono figli, sono figli miei”. Cosa voleva padre Pino per i suoi figli? “Rispondere a quella fame più profonda, fame di senso, dignità, affetto, benevolenza, amicizia, lavoro onesto, giustizia, cultura”.
Così a Brancaccio in soli due anni avvia le missioni popolari, la scuola teologica di base, il gruppo biblico, la mostra vocazione itinerante, il Centro Padre nostro. Tesse una profonda rete di relazioni che, ad esempio, consente, dopo le stragi di mafia, un’ampia risposta della sua gente alla ‘Giornata della vita’, dedicata allo sport nelle strade del quartiere, e poi la partecipazione alla marcia antimafia nel centro città. Il ‘suo’ Dio ama tutti “e – ripeteva – si ostina a non perderci. Si sente impoverito, se anche uno dei suoi figli si allontana da lui e ci viene a cercare”.
Questa certezza 3P la sentiva molto e da qui prendeva spunto e sostegno tutto il suo impegno, che non escludeva nessuno, neppure i mafiosi: condannata con nettezza la mafia e la violenza, il sacerdote aveva invitato gli autori e i mandanti delle intimidazioni e delle percosse al dialogo per capire perché si opponessero alle iniziative della parrocchia, perché non volessero che i loro figli crescessero nell’abbraccio accogliente e nella giustizia. Intendeva ricondurre tutti alla casa del Padre. “Al massimo che possono farmi, mi uccidono? E allora?”, era la risposta a chi si preoccupava per lui che in quel contesto aveva “chiarezza della sua missione: stare con la gente che a lui era stata affidata con il compito di promuovere la persona secondo lo stile del Vangelo. E adesso che nel suo percorso si frapponeva una forza avversa”, spiega don Carlo, per essa “l’unico modo di fermare 3P è stato quello di eliminarlo”.
Enza Maria ricorda l’ultima volta che ha visto padre Pino Puglisi, due giorni prima che fosse ucciso, quando già le minacce e le violenze erano segnali che facevano presagire il peggio, ma la cui portata aveva nascosto per proteggere chi gli stava attorno: “3P non aveva per nulla fretta di congedarmi, era come se volesse in qualche modo trattenermi. Me lo ricordo ancora, mentre tutti aspettavano, lui era con me alla porta, ha aspettato che salissi sulla macchina, che facessi inversione e, fino a quando non sono scomparsa alla sua vista, era li’ a fianco della porta aperta, in piedi, sorridente. Con un gesto della mano mi salutava mentre io mi allontanavo. Ripensando ancora a quel momento, lo vedo ancora senza soprabito, senza borsa, senza fretta di andare a mangiare, e mi tornano alla mente le parole che mi ha consegnato: ‘Povero sono venuto, povero me ne vado'”.
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