Affari e usura con tassi al 350%. Colpo a Cosa nostra Spa. A infliggerlo l’operazione antimafia “Oleandro”. Arrestate 15 persone del gruppo di Picanello, storica branca della famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano di Catania. Su delega della procura di Catania, i finanzieri del Comando provinciale, con la collaborazione del Servizio centrale investigazioni sulla criminalità organizzata (Scico), hanno eseguito nelle province di Catania, Caltanissetta, Arezzo, Napoli e Udine a un’ordinanza di misura cautelare nei confronti di 26 indagati.
Il gip ha disposto misure cautelari personali nei confronti di 15 persone (14 in carcere e 1 agli arresti domiciliari), gravemente indiziate, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso nonché delle condotte, aggravate dal metodo mafioso, di usura, estorsione, traffico organizzato e spaccio di sostanze stupefacenti e riciclaggio di denaro nella forma del reimpiego dei proventi illeciti in attività economiche; il sequestro, finalizzato alla confisca, di 9 attività commerciali a Catania e operanti nel settore dell’edilizia, 81 tra fabbricati e terreni siti in provincia di Catania e Arezzo, 5 auto e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di oltre 12 milioni di euro.
L’indagine ha preso avvio da alcune risultanze investigative acquisite nell’ambito di altra operazione delle Fiamme gialle etnee denominata “Tuppetturu”. In una conversazione intercettata con alcune persone contigue al clan Cappello, articolazione Cintorino, discutevano delle dinamiche criminali in corso di evoluzione tra i nuovi referenti del gruppo di Picanello.
In una prima fase delle indagini sarebbe emersa la figura di Carmelo Salemi, 54 anni, noto come “u ciuraru” (il fioraio), in quanto titolare di un esercizio commerciale di rivendi ta di piante e fiori sito nel quartiere di Picanello. Insieme ai suoi uomini di fiducia, avrebbe avuto il compito di riorganizzare il gruppo mafioso, falcidiato a seguito di una serie di arresti operati nel tempo. Raggiunto Salemi nel 2020 da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, l’attenzione è stata rivolta ai suoi possibili successori e, in particolare, a Giuseppe Russo, 47 anni, detto “il giornalista” o “l’elegante”, che avrebbe assunto la reggenza.
Il ruolo di Salemi e Russo sarebbe confermato dal fatto che avrebbero anche organizzato anche summit in una stalla nel quartiere Picanello, intestata a un familiare di Alfio Sgroi, 53 anni, ritenuto braccio destro di Salemi. Del gruppo di Picanello avrebbero fatto parte anche Antonino Alecci, 62 anni, Andrea Caruso, 43 anni, Giuseppe Gambadoro, 41 anni, Fabrizio Giovanni Papa, 58 anni, e Alfio Sgroi, 53 anni, ciascuno con ruoli ben definiti. In particolare, Alecci avrebbe rivestito una funzione di primaria importanza nel clan, in quanto ritenuto uomo di fiducia del boss storico Giovanni Comis, reggente del gruppo di Picanello dal 2013 al gennaio 2017, quando è stato arrestato nell’ambito di altra indagine.
Sarebbe stato inoltre il gestore di attività di gioco d’azzardo illegale praticata nella zona di Picanello, i cui introiti sarebbero stati destinati al clan, nonché incaricato della raccolta dei soldi delle estorsioni, comprese quelle commesse a Natale e Pasqua, pur occupandosi personalmente e principalmente dell’attività inerente il traffico di sostanze stupefacenti per conto del clan. Caruso, Gambadoro e Sgroi avrebbero svolto compiti di esecuzione delle direttive di Salemi e Russo, sia nei rapporti interni al gruppo, sia nei rapporti con altre articolazioni della famiglia mafiosa Santapaola nel territorio di Catania.
Si sarebbero, a vario titolo, occupati delle attività estorsive e usurarie perpetrate in favore o in nome del clan di Picanello e del traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Sgroi sarebbe peraltro risultato braccio destro di Salemi, fungendo anche da tramite tra quest’ultimo e gli altri affiliati o i semplici esecutori delle iniziative criminali del capo, quali ad esempio i pusher delle piazze di spaccio gestite dai clan.
Una delle attività più redditizie sarebbe stata l’erogazione di prestiti a tassi usurari, inseriti in un sistema più ampio di reinvestimento dei proventi rinvenienti dal traffico di sostanze stupefacenti, dalle estorsioni e dal gioco d’azzardo. Gli indagati avrebbero inoltre utilizzato metodi mafiosi per minacciare le vittime e garantirsi il pagamento delle rate di capitale e interessi. Sarebbe emerso un meccanismo collaudato con finanziamenti di piccoli tagli, di norma da 500 a 2.500 euro, da rimborsare in rate settimanali o mensili con un tasso di interesse oscillante tra il 140% e il 350% su base annua.
Uno dei protagonisti di queste attività sarebbe risultato Nunzio Comis, 41 anni, figlio del boss Giovanni, arrestato dal Nucleo Pef della Guardia di finanza di Catania nel 2020 mentre riscuoteva una rata usuraria da parte di un imprenditore. Per svolgere le attività illecite, Comis avrebbe utilizzato un telefono aziendale intestato fittiziamente a un’altra persona, facendosi chiamare “Melo” durante le conversazioni per evitare di essere facilmente identificato. Inoltre, avrebbe fatto uso di un noto bar situato nel quartiere Picanello come punto di incontro per la riscossione delle rate da parte degli indebitati. Gli importi sarebbero stati consegnati a “Lorenzo”, successivamente identificato nell’indagato Lorenzo Antonio Panebianco, 24 anni, dipendente del bar. Altri indagati attivi nell’usura sarebbero stati Giuseppe Gambadoro, Corrado Santonocito, 61 anni, e Biagio Santonocito, 33 anni.
Emersa l’esistenza di una cassa comune in cui far confluire i proventi delle attività illecite e da cui attingere per supportare economicamente gli affiliati detenuti o ex detenuti da poco usciti dal carcere e le relative famiglie, sostenendone pure le spese di viaggio in occasione delle trasferte per i colloqui, erogare gli stipendi, pagare gli onorari degli avvocati difensori degli affiliati stessi, reinvestire in altre attività criminali.
Vi sarebbe stata anche una contabilità – chiamata “la carta” – composta da appunti scritti recanti i creditori e debitori del sodalizio nonché i guadagni e le spese sostenute. Il riciclaggio dei proventi illeciti sarebbe stato infine assicurato da Fabrizio Giovanni Papa, imprenditore attivo nel settore dell’edilizia, ritenuto particolarmente legato al gruppo di Picanello e a Salemi, al quale avrebbe messo a disposizione le proprie società per il riciclaggio di ingenti quantità di contanti provento delle attività criminali del clan. E difatti numerosi cantieri avviati dalle società di Papa sarebbero sorti mediante gli investimenti dei proventi illeciti dell’associazione mafiosa.
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