Trent’anni non sono bastati per individuare i responsabili di quello che è stato definito dal procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, “un depistaggio gigantesco e inaudito che ha coperto alleanze mafiose di alto livello”.
Una assoluzione e due prescrizioni per i tre poliziotti finiti sotto processo con l’accusa di avere depistato le indagini successive alla strage di via D’Amelio. È la decisione del tribunale di Caltanissetta presieduto dal giudice Francesco D’Arrigo, dopo quasi 10 ore di camera di consiglio, a una settimana esatta dal trentesimo anniversario dell’eccidio. Sotto processo il funzionario Mario Bo e gli ispettori in pensione Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Ribaudo è stato assolto perché il fatto non costituisce reato, per gli altri due il reato è stato prescritto. In aula, ad assistere alla lettura del dispositivo, anche due dei tre figli di Paolo Borsellino, Lucia e Manfredi. La procura aveva chiesto 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e 9 anni e mezzo ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Il tribunale ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per il falso pentito Vincenzo Scarantino per calunnia e falsa testimonianza e in ordine alle dichiarazioni rese dai poliziotti Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi, in quanto testimoni sospettati di falsità o reticenza.
“Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello“, ha detto l’avvocato Fabio Trizzino che rappresenta i fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante – ha aggiunto – è una sentenza che va rispettata. Il dato che vorrei evidenziare è che il dottore Bo e l’ispettore Mattei hanno commesso la calunnia. La prescrizione li salva perché i fatti sono risalenti a quasi trent’anni fa, l’elemento della calunnia rimane“. Una sentenza “che non ci soddisfa”.
“I nostri assistiti sono completamente estranei. Aspetteremo le motivazioni della sentenza per stabilire il da farsi“, annunciano i legali degli imputati, che aggiungono: “Ritenere in questo processo che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore“.
Il fatto che “sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c’è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare”.
I tre imputati dal ’92 avevano fatto parte del pool investigativo “Falcone e Borsellino”. All’epoca erano stretti collaboratori di Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo, deceduto nel 2002. Erano chiamati a difendersi dall’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I tre poliziotti erano accusati di aver contribuito a depistare le indagini su via D’Amelio costringendo Vincenzo Scarantino, a dichiarare il falso e ad accusare sette persone poi risultate estranee alla strage. Il dibattimento era iniziato il 5 novembre 2018, sono state celebrate 85 udienze, prodotte 4.900 pagine di trascrizioni e chiamati a deporre 112 testi. Nel settembre del 2018, il gup Graziella Luparello, ha accolto la richiesta della procura e rinviato a giudizio il funzionario di polizia Mario Bo e gli ispettori in pensione Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, che nel ’92, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, fecero parte del pool investigativo “Falcone e Borsellino”. All’epoca erano stretti collaboratori di Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo, deceduto nel 2002.
Uomini dello Stato chiamati a difendersi dall’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Per il procuratore De Luca e il pm Stefano Luciani i tre poliziotti avrebbero contribuito a depistare le indagini su via D’Amelio. Con minacce e pressioni psicologiche, avrebbero indottrinato l’ex pentito Vincenzo Scarantino per dichiarare il falso e accusare persone estranee alla strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.
Il “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”, come è stato definito dai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del “Borsellino quater”, secondo il pm Stefano Luciani, sarebbe partito dal carcere di Pianosa dove Scarantino, nel settembre ’93, venne trasferito da Busto Arsizio. Ed è a Pianosa che Scarantino avrebbe subito atti di “terrorismo… non solo mentale ma anche fisico” tali da convincerlo a diventare, come lui stesso ha detto, “il nuovo Buscetta” dando corpo ed enfasi alle sue menzogne su via D’Amelio. Per la procura di Caltanissetta, Scarantino è un “collaboratore costruito a tavolino”. Quindici giorni dopo l’arresto dell’ex picciotto della Guadagna, risalente al 29 settembre 1992, al procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra venne consegnata una nota del Sisde con a capo Bruno Contrada: “Il Sisde anziché dire che Scarantino era un piccolo delinquente di borgata, lo definì un boss mafioso”. Ecco, secondo il Pm Luciani, dove tutto ha inizio: “Da quel momento Scarantino subì un pressing asfissiante”. Dopo aver dichiarato di essere stato vittima di minacce e torture fisiche e psicologiche, la notte del 24 giugno 1994 quasi due anni dopo essere stato arrestato e formalmente accusato d’aver partecipato all’organizzazione della strage di via D’Amelio, iniziò a collaborare con i magistrati nisseni. “Quando arrivò a quell’interrogatorio era un uomo esasperato”, ha sottolineato la procura nissena. Si autoaccusò del furto della 126, poi trasformata in autobomba usata per la strage di via D’Amelio. Negli anni successivi il falso pentito, che nel momento del suo arresto per vivere vendeva sigarette di contrabbando, ha ritrattato diverse volte ma nessuno gli credeva. Proprio a causa delle sue false rivelazioni, per la strage del 19 luglio ’92, furono condannati diversi imputati poi scagionati grazie alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che, a partire dal 2008, ha permesso di riscrivere la storia delle stragi siciliane. Ilda Boccassini, fu tra i primi magistrati a manifestare dubbi. Disse che era un “balordo”: “Mi accorsi subito che Scarantino raccontava fregnacce pericolose”.
Ma nessuno fermò il falso pentito, il depistaggio andò avanti. Il falso collaboratore, fino all’arrivo di Spatuzza, ha sempre confermato, poi smentito, ritrattato, negato le sue dichiarazioni. La svolta è arrivata nel processo “Borsellino bis” nel 1998 quando, dopo aver accusato persone innocenti, magistrati e poliziotti, ha fatto dietrofront sostenendo di essersi inventato tutto. a inquinare la verità non sarebbero state solo le dichiarazioni di Scarantino, ma anche le menzogne raccontante da altri falsi pentiti.
Nel giugno del 2019, la procura di Messina ha aperto un procedimento nei confronti degli ex pm Carmelo Petralia e Annamaria Palma. I due magistrati facevano parte del pool che coordinò le indagini su via D’Amelio. Anche loro, come i tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta, sono stati accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra per aver costruito ad arte il falso pentito Vincenzo Scarantino, assieme all’ex capo della squadra mobile di Palermo La Barbera. L’indagine a loro carico nel 2021 è stata archiviata anche se il gip, ha rilevato che “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino”. Per l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei familiari del giudice, “dietro il depistaggio c’era un disegno criminale che si poteva fermare”. Il legale ha più volte esortato i tre poliziotti a dire la verità. Ha anche puntato il dito contro quei magistrati che hanno più o meno sostenuto la credibilità del falso pentito Vincenzo Scarantino: “per quanto si credano assolti, per noi sono lo stesso coinvolti”.
A 30 anni dall’attentato che costò la vita al giudice Borsellino e a cinque agenti della sua scorta, le famiglie delle vittime, chiedono verità e giustizia mentre la strage di via D’Amelio rimane ancora avvolta da tanti inquietanti misteri e buchi neri. Documenti spariti nel nulla, sopralluoghi non verbalizzati, annotazioni a penna su alcuni verbali consegnati a Scarantino prima dei suoi interrogatori e anomalie nell’utenza telefonica da lui utilizzata quando era a San Bartolomeo al Mare, pause durante i colloqui investigativi, la scomparsa dell’agenda rossa, la presunta presenza di uomini dei servizi segreti e di mandanti occulti. In aula, troppi “non ricordo” da parte di servitori dello Stato, uomini in divisa e delle istituzioni che avrebbero dovuto collaborare per la ricostruzione della verità e che invece sono stati assaliti da improvvise amnesie, pianti e contraddizioni. La giustizia resta lontana.
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