Lo hanno preso per la malattia, non dice di essere Superman né arrogante e la malattia lo ha portato oggi di nuovo in ospedale, per un intervento urgente dovuto a un’occlusione intestinale. Ora il capomafia Matteo Messina Denaro chiede, per mezzo dei propri legali, la scarcerazione o la revoca del 41 bis, ma fino a febbraio era spavaldo, arrogante. Negando ad esempio di aver fatto parte di Cosa nostra: “Sono uomo d’onore ma non mi sento mafioso“. Poi però ammette che “forse ci ho fatto affari e non sapevo che fosse Cosa nostra“. Il verbale del 13 febbraio, reso al procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido era noto a spizzichi e bocconi, nella fermezza di un boss che afferma che non si pentirà mai e per il quale il tempo pare sempre più breve per un’eventuale decisione di segno contrario. Nega le accuse di avere commesso le stragi, dice di non avere voluto offendere Giovanni Falcone quando imprecava durante le commemorazioni che lo avevano trattenuto in strada, incolonnato in attesa che il traffico si sbloccasse: “Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: cosi vi fate odiare“.
Un capo sui generis, Messina Denaro: preoccupato di difendere i fiancheggiatori, facendo una sorta di filosofia giuridica sulla natura del concorso esterno (“reato farlocco”) e quasi preconizzando il dibattito politico-giudiziario di queste settimane. Poi è chiaro nella sua perfidia mafiosa: “Se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello di Mazara (Trapani, ndr), penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta”. E ancora: “Mi sono creato un’altra identità: Francesco. Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare“. Poi nega che tutti sapessero chi era lui, ipotesi da dimostrare per molti ma non per tutti, nel paese che lo ha ospitato. Una vita che “non è stata sedentaria”, ma “molto avventurosa, movimentata”.
Filosofo, mafioso no ma uomo d’onore sì, concorso esterno no e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo non dice di non averlo commesso ma di non avere ucciso il ragazzino, figlio del pentito Santino Di Matteo: “A me dovrebbero appioppare solo il sequestro, l’omicidio lo ha fatto commettere Brusca che è impazzito dopo avere saputo che lo avevano condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo. Che c’entro io? Quante ingiustizie devo subire?”. Anche le stragi non gli appartengono: “Stragi e omicidi… non c’entro nella maniera più assoluta“, però i contatti con Bernardo Provenzano ci furono: “E lei perché scriveva a Bernardo Provenzano?“, gli chiede De Lucia. E il boss: “Perché quando si fa un certo tipo di vita poi, arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare perché io latitante accusato di mafia lui latitante accusato di mafia dove si va?”. Omicidi no, però favori sì, ammette. E poi ancora droga no, non aveva bisogno, il padre “era benestante, faceva il mercante d’arte”.
“Procuratore, lei voleva sapere se io ho fatto omicidi e cose più… allora con questo Francesco Geraci, più di questo io per avercela con qualcuno più di questo, a chi dovevo cercare?“. Così il boss Matteo Messina Denaro, nel verbale reso il 13 febbraio scorso al procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, nega di avere mai ordinato delitti. E fa due esempi: uno riguarda Tonino Vaccarino, alias Svetonio (“E’ un nome che ho scelto perché sono appassionato di storia antica”), che lo aveva “tradito”; l’altro è il gioielliere pentito Francesco Geraci, suo ex cassiere e morto per cause naturali nei giorni precedenti l’interrogatorio. Nell’apprendere della scomparsa, di cui chiederà più volte conferma ai magistrati, l’ex superlatitante ribadisce le ragioni del suo astio contro il collaboratore, che si sarebbe appropriato di beni dello stesso Messina Denaro.
Poi snocciola una serie di dati identificativi di Geraci: “Io ho sempre saputo dov’era, a Bologna, via Enrico Panzacchi 14 e aveva una gioielleria, sempre a Bologna in via XX Settembre, nel centro storico. Via Enrico Panzacchi è, lo sapete meglio di me, un grande ring che ogni 100-150 metri cambia nome, una zona residenziale. E’ morto, io l’ho saputo ora, con un tumore: io non l’ho ucciso e nemmeno l’ho fatto uccidere. Dice, ‘cosa vuoi dire?’. Che non mi interessavano queste cose, io in questi 30 anni a lui dentro di me l’ho perdonato, io rispettavo l’amicizia da quando siamo nati. Secondo lei, se a me fosse importato ucciderlo o altre cose, la sua famiglia è a Castelvetrano (Trapani, ndr). Ma non gli è successo mai niente perché io dentro la mia testa ho un mio codice comportamentale”. E qui la chiosa finale di un ragionamento svolto nel corso di un interrogatorio che è anche un confronto dialettico e intellettuale tra l’eccellenza criminale e l’eccellenza inquirente della magistratura: “Non è allora per rispondere in un altro modo a quello che ha detto lei all’inizio, alla domanda se io faccio parte… Io non faccio parte di niente, io sono me stesso ma devo essere un criminale, mi definisco un criminale onesto”. Interviene il pm Guido, coordinatore delle ricerche e della cattura del boss: “Un criminale?”. E Messina Denaro ribadisce: “Onesto”. De Lucia: “Questo è un ossimoro, lei sa cosa significa naturalmente…”. E il capomafia, manifestando il proprio narcisismo e ponendo l’accento sulla sua istruzione, che ne fa una persona diversa dalla media degli appartenenti a Cosa nostra, un latitante che si vanta di avere occupato il tempo leggendo tanti libri: “Sì, l’ossimoro, la gelida fiamma. Facevano sempre questo esempio, a scuola”.
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