Una ricorrenza che è più di un semplice anniversario: il 29 gennaio del 1993 l’allora parroco di San Gaetano nel cuore del quartiere Brancaccio, don Giuseppe Puglisi, realizzava quanto aveva ideato e progettato: il Centro Padre Nostro, una realtà a servizio del territorio, una realtà che mancava, così come mancavano tante altre strutture, tanti altri servizi, tanti luoghi in cui potersi incontrare, poter giocare, poter essere accolti. Il Centro Padre Nostro (in realtà realizzato già due anni prima), venne “approvato e incoraggiato dal Cardinale Arcivescovo Salvatore Pappalardo” (così recita la targa posta all’ingresso dei locali) venne fin da subito “affidato al servizio operoso delle sorelle dei poveri. La comunità parrocchiale e i benefattori realizzarono”.
Una ricorrenza – ha voluto sottolineare l’Arcivescovo Corrado Lorefice che ha visitato il Centro Padre Nostro – che oggi assume il valore di una tappa dell’itinerario che la Chiesa di Palermo sta realizzando in questo anno durante il quale si farà memoria, il prossimo 15 settembre, del martirio “in odium fidei” del Beato Giuseppe Puglisi, ucciso per mano mafiosa.
Di seguito, il ricordo del Beato Giuseppe Puglisi che il Cardinale Salvatore Pappalardo, già Arcivescovo Emerito di Palermo, volle offrire nove anni dopo l’omicidio:
Non ho il ricordo di un momento particolare che riguarda padre Pino, ricordo invece la sua continua disponibilità a fare ciò che gli si chiedeva, anche quando era un sacrificio per lui. Non ricordo invece neanche un’occasione in cui lui non abbia detto di sì senza badare alla sua convenienza. Era buono, mite, semplice, totalmente assorbito dal suo dovere di sacerdote; e se era consapevole di non poter riuscire a raggiungere da solo certi risultati, faceva in modo che altri ci arrivassero; per lui, in definitiva, era stato importante gettare il seme. Mi hanno chiesto tante volte che senso ha dire che l’unica arma che deve essere usata da un sacerdote, soprattutto in quartieri difficili, come Brancaccio, è quella del Vangelo: la missione del sacerdote è innanzitutto quella di evangelizzare e di far derivare da questa opera la conoscenza della vita; significa connettere, far dipendere la vita quotidiana dal Vangelo che si è predicato. Questo deve fare un sacerdote. Ed è anche per questi motivi che chiesi a padre Puglisi di occuparsi dei ragazzi del seminario come guida spirituale. Ma ciò che ricorderò sempre sarà la completa disponibilità di questo sacerdote che non badava a sé stesso, alle sue esigenze, ai ritmi della sua giornata e si rendeva totalmente disponibile agli altri. Era perennemente in ritardo: se l’appuntamento era alle 9 lui diceva “aspettatemi fino alle 10, poi rimanete fino alle 11 e se a mezzogiorno non sono arrivato, andate via”. Era in ritardo perché non riusciva a dire di no a chi gli chiedeva qualcosa. Padre Pino era costantemente “pane spezzato”, e si faceva mangiare dagli altri secondo la loro fame. Lo chiamavo “il prete scatoletta” perché quasi sempre rinunciava a un pasto decente e si accontentava di una scatoletta di tonno o di carne per avere più tempo da dedicare agli altri. A Brancaccio si fece pane spezzato soprattutto per i giovani, per riuscire a scardinare un modo di vivere che poco aveva a che fare con l’insegnamento di Gesù, e questo gli procurò non pochi fastidi. Fece un’opera educativa e anche preventiva: “Perché non volete che io mi occupi dei vostri bambini, perché non volete che io li educhi? Venite, ragioniamo insieme”. Sapeva che sarebbe potuto arrivare il dialogo ma sapeva che sarebbe potuta arrivare anche una pallottola. Io stesso e i suoi collaboratori capimmo che il clima si faceva pesante, ma padre Pino non trasmise mai a nessuno i suoi timori e sorridendo disse al suo assassino “me l’aspettavo”.
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