I pubblici ministeri Gianluca De Leo e Pierangelo Padova hanno chiesto al gup del tribunale di Palermo Rosario Di Gioia 13 anni di carcere per il geometra Andrea Bonafede, di 60 anni, l’uomo di Campobello di Mazara (Trapani) che aveva prestato la propria identità, “cedendo di fatto” la propria vita e consentendo di continuare a vivere da latitante al boss Matteo Messina Denaro, recentemente scomparso a causa di un tumore. Il processo si svolge in abbreviato e la richiesta tiene conto della riduzione prevista per il rito alternativo, un terzo della pena. In ultima analisi, per Bonafede la Dda di Palermo, coordinata da Maurizio de Lucia e, per questo aspetto, da Paolo Guido, ha proposto circa 18 anni: l’imputato risponde di associazione mafiosa e non più dell’iniziale contestazione di favoreggiamento e procurata inosservanza di pena, aggravati dall’agevolazione di Cosa nostra.
Nella loro requisitoria di stamattina (la sentenza sarà emessa dopo le arringhe difensive, fra due settimane) i pm Padova e De Leo hanno evidenziato il fondamentale ruolo svolto da Bonafede nella latitanza di Messina Denaro, svolta a un passo da casa, nel paese vicino alla natia Castelvetrano (Trapani), dove risiedono ancora i familiari del boss scomparso. Secondo le indagini svolte dai carabinieri del Ros, che il 16 gennaio arrestarono Messina Denaro alla clinica La Maddalena di Palermo, trovandogli addosso un documento intestato a Bonafede ma con la foto del latitante, il geometra avrebbe agevolato il capomafia anche fornendo cellulari e sim card intestate a propri prossimi congiunti (la madre molto anziana, la suocera) e sostenendolo con strumenti di pagamento a lui intestati e nel percorso delle cure, anche con la complicità del medico Alfonso Tumbarello e di un altro Andrea Bonafede, cugino omonimo dell’imputato e operaio del Comune di Campobello.
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