“Non potete capire quanto sia emozionata e il motivo nasce dalla consapevolezza che la designazione casuale come difensore d’ufficio mi ha dato l’opportunità di essere in un procedimento che entrerà nella storia perché parla di fatti che hanno segnato la storia del nostro Paese”.
Lo ha detto l’avvocato d’ufficio del boss Matteo Messina Denaro, Adriana Vella, all’inizio della sua arringa, nel processo che si celebra davanti alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, in cui l’ex superlatitante – che anche oggi ha disertato il videcollegamento dal supercarcere di L’Aquila – è accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via d’Amelio. L’avvocato ha annunciato che per il suo assistito chiederà l’assoluzione.
“La designazione come difensore d’ufficio casuale – ha aggiunto – fa di me l’espressione massima della tutela del diritto di difesa che lo Stato assicura a tutti. Credo fermamente che questa Corte sappia giudicare con imparzialità l’imputato, sappia leggere i motivi di appello, sgombrandoli dal nome dell’imputato e sappia con la medesima imparzialità ascoltare le mie riflessioni”.
“Era Mariano Agate il reggente di Cosa nostra del trapanese e non Messina Denaro. Lo hanno riferito diversi collaboratori di giustizia”, ha argomentato la legale del boss Adriana Vella nel corso della sua arringa. La sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania “individua in Mariano Agate uno dei mandanti della strage di Capaci. E allora è evidente che se Agate era uno dei mandanti della strage, lo era o in qualità di capo provincia o di reggente della provincia di Trapani, in sostituzione del padre dell’imputato con la conseguenza di dovere ritenere errate le conclusioni a cui sul punto è pervenuta la Corte di Assise nel giudizio di primo grado”.
Anche “le intercettazioni effettuate nel carcere di Opera durante un colloquio tra Salvatore Riina e tale Lorusso, pregiudicato pugliese – per Vella – smentiscono la tesi secondo la quale Matteo Messina Denaro fosse reggente della provincia trapanese, così come sostenuto nella sentenza di primo grado”. Nelle parole di Riina “il padre dell’imputato viene individuato dal capo indiscusso dell’organizzazione quale capo mandamento e non capo provincia. ‘Ora se ci fosse suo padre buonanima, perché il padre era una brava persona, una bella persona’, dice Riina durante quel colloquio criticando l’imputato per le scelte strategiche fatte, ben lontane dalle logiche stragiste, ossia la sua decisione di dedicarsi al mercato dell’eolico. Anche la malattia del padre di Messina Denaro non era così invalidante da ritenere necessaria una sua sostituzione”.
“Matteo Messina Denaro in tutte le riunioni che si svolsero in cui venne deciso il piano stragista non era presente. Non diede il suo assenso alla stagione stragista”. Lo ha affermato l’avvocata d’ufficio Adriana Vella, nel corso della sua arringa al processo che si celebra a Caltanissetta davanti la corte d’assise d’Appello, in cui il boss è accusato di essere uno dei mandanti delle stragi del 92. “Nella cosiddetta missione romana, ordinata da Riina per colpire personaggi di rilievo, quali Giovanni Falcone, il ministro Martelli, Maurizio Costanzo e Andrea Barbato, Matteo Messina Denaro recepì l’ordine impartito da Totò Riina come un mero soldato. I soggetti convocati da Riina, come emerge dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori – ha aggiunto – si limitarono a recepire l’ordine impartito dal capo di Cosa Nostra, ossia quello di attuare propositi criminosi mai realizzati”.
Insomma il padrino di Castelvetrano, per la legale d’ufficio, “non conosceva i successivi e nuovi sviluppi del piano decisi dai vertici di Cosa nostra. Sinacori riferisce che tutti i partecipanti alla trasferta romana, furono invitati da Riina a tornare in Sicilia ‘perché qui abbiamo trovato cose più grosse’. Tra l’altro, tale espressione utilizzata da Riina non viene nemmeno compresa sul momento da Sinacori, ma solo successivamente alla strage di Capaci. Dunque la circostanza che Riina, senza alcun preavviso, informi i soggetti andati a Roma che non avevano più ragione di continuare la loro attività nella Capitale, senza fornire spiegazione su quali erano ‘queste cose più grosse’ in territorio siciliano dimostra che il piano stragista aveva assunto connotati e finalità ben diverse e cioè l’attacco frontale e diretto allo Stato e che di questa nuova connotazione e finalità l’imputato non aveva contezza alcuna. La missione romana fu un fallimento”.
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